Cos’è la giustizia? Platone direbbe che è la virtù per eccellenza a cui tutte le virtù particolari devono adeguarsi, l’equilibrio di tutte le virtù. Ma qui non mi riferisco al concetto di giustizia dal punto di vista filosofico, ossia a ciò che è giusto o ingiusto, compito davvero gravoso per chiunque si cimenti con tali antinomie. Penso, piuttosto, ai meccanismi della giustizia, in specie, ai processi. Il grande Piero Calamandrei affermava che “per trovar la giustizia bisogna esserle fedeli: essa, come tutte le divinità, si manifesta soltanto a chi crede”. E, nonostante sia passato qualche anno, questa affermazione è più attuale che mai, se si riflette su esempi di ingiustizia quali la condanna di un innocente, come il caso di Angelo Massaro e Giuseppe Gulotta in carcere per oltre un ventennio, poi assolti, o l’assoluzione di un colpevole, come il caso Nicola Chirico, poi condannato in appello per omicidio o, ancora, i casi in cui è certa la responsabilità dell’imputato ma, grazie alle lungaggini dei processi, il reato si prescrive.
Ai giorni nostri essa si identifica con un’istituzione, un potere, quindi, con un’azione: il processo, appunto, attraverso il quale si cerca di ricostruire i fatti per giungere a quella verità che consentirà al magistrato di giudicare. Il problema è che, spesso, il magistrato è chiamato a ricostruire i fatti sulla base di elementi incerti ai quali la legge non può dare soluzione. Ed ecco che l’errore giudiziario è lì, pronto a colpire. Habent sua sidera lites, asseriva Calamandrei, per sottolineare come pure le liti fossero influenzate dalle stelle (anche se poi sosteneva che tale brocardo era stato inventato da un causidico senza scrupoli e senza passione).
Salvatore Satta affermava che “Il processo è una pena, spesso la sola vera pena”; aggiungo: se accompagnata dalla lungaggine del processo, dalla gogna mediatica a cui si è esposti e dalla presunzione di innocenza, è pena anche più severa di una sentenza di condanna al carcere. Intollerabile! Un lungo processo può trasformare il vincitore in un perdente perché una giustizia lenta è, per definizione, una giustizia ingiusta. In tale situazione, al giudice si chiede la ricerca della verità. È una sfida al confine tra il temerario e l’irrealizzabile. Lo diceva Friedrich Nietzsche che la verità assoluta non esiste. Secondo il filosofo esistono solo verità relative, quelle proprie dell’uomo. È per questo che nella giustizia non esiste la verità assoluta, ma molteplici verità relative tra le quali il giudice ha il delicato compito di trovare quella più vicina alla realtà. Nel segreto della camera di consiglio egli deve ricercare la migliore verità umana, quella più attendibile secondo le regole del codice di procedura. La verità così formatasi diviene, poi, per mezzo della sentenza, verità processuale definitiva. Ed anche se i saggi latinismi giuridici operano un apprezzabile tentativo di aiuto, per il giudice non è sufficiente, dovendo egli, da solo, decidere fra due opposte versioni dei fatti, quella dell’accusa e quella della difesa. Dovrà deliberare la sua verità. Aveva ragione Nietzsche e, tanto più, aveva ragione Calamandrei. Marco Balzano, sul Corriere della Sera, ha scritto che “Avere fede è più facile che avere fiducia. La fede, infatti, è un atto assoluto, implica una parte dogmatica a cui il credente si abbandona con convinzione e immediatezza, mentre la fiducia è un atto sospeso, il cui esito è sempre incerto perché coinvolge l’altro. Senza l’altro, non ha nemmeno senso parlarne”. Oggi non è sufficiente avere fiducia nella giustizia, bisogna aver fede. Ancor più che nella giustizia, nei giudici, perché essi, nel percorrere il tormentato sentiero della ricerca della verità, incontrano due abili nemici: il pregiudizio e la menzogna. Dai pregiudizi il giudice deve essere scevro, libero; ai preconcetti immune. Diversamente ogni sua decisione sarà predeterminata perché da essi influenzata, quindi ingiusta. Quanto alla menzogna, Oscar Wilde accennava all’esistenza di due tipi: la vera menzogna che basta a se stessa e la falsa menzogna che ha bisogno di una prova per essere creduta. Il giudice deve saper riconoscere la prima e confutare le prove a sostegno della seconda, in modo da giungere alla verità processuale. Ma per far questo, egli non deve mai dimenticare che, prima ancora di essere un magistrato, è un uomo, perché solo così potrà tentare di comprendere l’imputato, ancor prima di giudicarlo. Allora la fede avrà un senso.