Il Giornale del Salento

Ma alla fine, chi paga?

Un periodo di emergenza è una fase della vita in cui chiunque dovrebbe dare il meglio di sé ed è proprio in questo momento che emerge il meglio o il peggio di un popolo. L’uomo, sin dalla nascita, si prepara ad essere utile ai suoi simili, alla collettività. E tanto più può farlo, quanto più è capace ed abile, qualità che non appartengono a tutti e che non sempre hanno attinenza con ciò che è l’oggetto del proprio studio o del proprio lavoro. Ragione per la quale un bravo chirurgo o un luminare della scienza non necessariamente sarebbero bravi manager o operai, così come un (bravo) professore non sempre riesce a gestire un’azienda o a governare un Paese.

In Italia, ad esempio, con i professori non siamo stati sempre fortunati. Ora non sto qui ad elencarli e, soprattutto, non voglio dire chi di loro, a mio avviso, ha causato più danni alla nazione. Da Amato a Prodi, da Monti a Conte, ciò che mi ha sempre lasciato perplesso è come essi siano potuti arrivare a ricoprire certi ruoli, non una, ma decine di volte. Quando penso a quanto sia difficile superare un concorso per l’insegnamento, un esame di Stato, un’abilitazione, un dubbio mi assale: ma queste persone hanno fatto quello che fanno i comuni mortali o hanno, da sempre, usufruito di corsie preferenziali che li ha portati a sedere su quegli scranni, senza qualità e senza virtù, come succede ai privilegiati?

Questo deduco perché, non sempre (a dire il vero negli ultimi tempi quasi mai) chi ha occupato “i seggi” è stato all’altezza del ruolo ricoperto. I più attenti lo hanno notato. Il terzo millennio è stato tragico, catastrofico. Dall’euro in poi il nostro popolo è divenuto servo dei potenti. Le lobby hanno amministrato la nostra economia e gestito la nostra vita sociale come meglio hanno creduto, senza alcuna opposizione da parte dei nostri governanti, spesso, con il loro benestare.

Sarà perché il terzo millennio segna l’epoca del consumismo, quella del tutto è possibile, del compro adesso e poi pago, del vado in giro in Mercedes tanto tra disoccupazione e reddito di cittadinanza me lo posso permettere. Sarà perché il terzo millennio in Italia segna l’epoca del comunismo, in controtendenza rispetto al resto del mondo (tranne in Cina e pochi altri Paesi).

Le macerie del muro di Berlino hanno spazzato via l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, mentre le lobby in Italia avviavano l’instaurazione del regime comunista, guardandosi bene dal riproporre un nuovo compromesso storico, richiesto dalla difficile congiuntura che ci si accingeva a vivere, nemmeno nei salotti televisivi.

Le conseguenze erano prevedibili: in primis l’appiattimento culturale e la deriva sociale. E così è stato. L’eccessiva e deliberata semplificazione dei contenuti intellettuali in ogni campo ha portato alla deriva sociale, alla massificazione e, quindi, alla spersonalizzazione dell’individuo che è stato sopraffatto dalla massa, la quale ha portato inevitabilmente al totale annullamento della meritocrazia.

In questo contesto, il ruolo del governante, anch’egli figlio del sistema a cui partecipa, diviene quello del demagogo, che senza indagare sui danni funesti che l’appiattimento culturale provoca, cavalca l’onda della deriva e predicando la demagogia dell’uguaglianza rende impraticabile qualsiasi selezione meritocratica, trasformandola, quasi naturalmente, in clientelare.  

Ma,  certamente, sarebbe più opportuno e giusto lasciare emergere le differenze, così come esse sono ed appaiono agli occhi di tutti, affinché sia consentito ad ognuno di prendere coscienza dei problemi che una tale ingiustizia può provocare. Senza aspettare che si scateni una pandemia per accorgersene.

Ecco perché non mi è mai piaciuta l’ideologia comunista; essa non predica l’equità, ma l’uguaglianza a tutti i costi. Il comunismo è il tempio dell’egualitarismo, non sente il bisogno di dare a tutti le stesse opportunità perché alla fine tutti avranno le stesse cose. In tal modo tutto si uguaglia, anche se non tutto si equivale, a discapito di chi merita e lavora.

Gli effetti funesti di tutto ciò non risparmiano nessuno. Così, nei momenti critici, quando niente va bene, i difetti emergono con maggiore evidenza. Ogni debolezza viene enfatizzata dagli errori commessi o dai torpori decisionali e si ripercuote sul popolo. Paradossalmente, su chi ha più bisogno: su chi non lavora, chi è in cassa integrazione, chi continua ad accumulare debiti per via di una classe dirigente inetta ed incapace di programmare e “decretare” giustamente ed opportunamente.  

Si, è proprio questo il paradosso. È difficile crederci, ma è così. Gli errori di un regime li pagano, soprattutto, gli ultimi, perché è questo che vogliono i potenti: una società basata sul consumo, in cui le multinazionali detengono il monopolio dell’economia a livello mondiale, la cui strategia consiste nella globalizzazione accompagnata dalla massificazione delle genti e dei consumi. Quando il popolo si lamenta viene accontentato con un tozzo di pane che gli viene “somministrato” come un premio che si concede al proprio cagnolino quando esegue un ordine.  

Questo è quanto succede in Italia da circa 15 anni. Dopo aver assistito alla decomunistizzazione di intere aree, in Italia ha avuto corso il processo inverso, iniziato con l’europeizzazione dei principi, nel tempo coincidenti con le decisioni dalla Germania. A comandare l’Italia, quindi, non è più il popolo italiano, ma i poteri forti internazionali, tra i quali la Germania e le varie lobby affaristiche di banche e pseudo-filantropi. Tutti fuorché gli italiani. Una sorta di dittatura, a metà strada tra il nazionalsocialismo hitleriano, non più di moda per ovvi motivi, e la socialdemocrazia del partito più antico dell’Europa Continentale, che si trova, guarda caso, un po’ più a sinistra.

Cosa è cambiato dall’alleanza Hitler-Mussolini a quella Merkel-Governi italiani di sinistra. Nulla. Niente eravamo e niente siamo. Ma dopo la guerra siamo stati capaci di costruire una nazione, oggi non sappiamo se ci sarà un dopo e, ancor meno, se saremo capaci di riprendere in mano la sorte del nostro popolo.                      

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