Il Giornale del Salento

L’etica e il lavoro nell’era dell’intelligenza artificiale

di Antonio CIRFETA

Il numero 130 del Compendio della dottrina sociale della Chiesa sostiene: “Alla persona umana appartiene l’apertura alla trascendenza: l’uomo è aperto verso l’infinito e verso tutti gli esseri creati. È aperto anzitutto verso l’infinito, cioè Dio, perché con la sua intelligenza e la sua volontà si eleva al di sopra di tutto il creato e di se stesso, si rende indipendente dalle creature, è libero di fronte a tutte le cose create e si protende verso la verità ed il bene assoluti. È aperto anche verso l’altro, gli altri uomini e il mondo, perché solo in quanto si comprende in riferimento a un tu può dire io. Esce da sé, dalla conservazione egoistica della propria vita, per entrare in una relazione di dialogo e di comunione con l’altro.

La persona è aperta alla totalità dell’essere, all’orizzonte illimitato dell’essere. Essa ha in sé la capacità di trascendere i singoli oggetti particolari che conosce, in effetti, grazie a questa sua apertura all’essere senza confini. L’anima umana è in un certo senso, per la sua dimensione conoscitiva, tutte le cose: «tutte le cose immateriali godono di una certa infinità, in quanto abbracciano tutto, o perché si tratta dell’essenza di una realtà spirituale che funge da modello e somiglianza di tutto, come è nel caso di Dio, oppure perché possiede la somiglianza d’ogni cosa o in atto come negli Angeli oppure in potenza come nelle anime»”.

Commentando questo numero ci si accorge di come esso sia preludio di ciò che già viviamo o forse abbiamo già vissuto. Trattando in particolar modo dell’intelligenza artificiale non ci si può non far riferimento a quelle che la fenomenologa Angela Ales Bello chiama, in un neologismo, che riporta la traduzione italiana dalla lingua tedesca, Erlebnisse, ossia vivenze. L’io è un essere stratificato, egli si presenta in un dato spazio e in un dato tempo con delle esperienze simili ai suoi simili. Questo è dovuto ad un nucleo di potenza che è in ciascuno di noi e che ci permette di non essere delle monadi individuali chiuse al mondo, bensì delle finestre aperte sul mondo, al punto da poter condividere con un altro o qualcun Altro chi siamo. Le domande esistenziali che tutti noi ci poniamo chi siamo, da dove veniamo, verso dove andiamo, sono, direbbe Husserl, la ritenzione, come ciò che è già avvenuto e la protensione verso cui tendiamo. La prof.ssa Angela Ales Bello in un incontro tenutosi lo scorso 19 novembre a Lecce, sosteneva come quando si pensa a cosa c’è dopo la vita, si è già in un oltre prospettato, ma non, giammai, conosciuto. Ancor prima di disquisire quale etica e quale lavoro possa entrare in relazione con l’intelligenza artificiale; è opportuno comprendere quale io? O meglio quale mondo o modo di possibilità l’io è chiamato ad essere immerso? Dunque è alquanto doveroso richiamare i primordi che anticipano la teoria dell’attuale intelligenza artificiale, perché se così si chiama non può che non affermare come al centro di tale teoria ci sia l’uomo. L’uomo come già si sosteneva è questo flusso di vivenze, vissuti che egli riporta alla sua coscienza. È opportuno, pur tuttavia prestare attenzione ai termini, in uno scavo archeologico, che richiama sì il metodo fenomenologico, ma che credo si sapeva fare bene, ma che non si sa per quale arcano motivo, abbiamo ormai smesso di fare, ossia il descrivere ciò che ci circonda. Personalmente alla mia giovane età ricordo come si facevano i temi a scuola, del tipo “Descrivi le vacanze natalizie”, piuttosto che “descrivi il tuo sport preferito” oppure sul sussidiario c’era un’immagine e bisognava descriverla, non erano di solito delle immagini intricate o misteriose, ma semplici che volevano far rintracciare il senso, si potrebbe dire l’essenza, l’eidos, di ciò che si guardava, ossia la coscienza che l’io aveva innanzi a quel quadro. La coscienza è un sapere insieme, ma al contempo rappresenta le diverse possibilità che l’io ha di entrare in contatto col mondo. La coscienza presenta tre tempi, il momento in cui le cose gli appaiono, e gli altri due che richiamavo in precedenza, ossia la ritenzione e la protensione. Ora, se l’io è proteso verso qualcosa è perché anche se non sa verso dove è proteso, è cosciente che quel luogo o quella persona c’è. La coscienza presenta dei limiti. Il concetto di limite risente, nell’approccio fenomenologico, del linguaggio logico-matematico, ossia di tendere verso, e proseguendo su questa scia, l’infinito. Ora, se come specificato in precedenza, l’io ha questo desiderio di infinito, di oltre, di altro è perché evidentemente quell’altro c’è, quell’infinito è presente, anche se ancora non sono comprensibili i termini. E dunque, così come specifica il numero 130 del compendio della dottrina sociale della Chiesa, l’io è aperto alla trascendenza, in altri termini l’io non può essere da solo. Sin dal IV secolo a partire dalla riflessione arcaico-ellenica sino a giungere all’approccio odierno, si è sempre pensato l’uomo in tali termini e si è cercato di situarlo, ora all’interno dell’universo guidato da Dio, ora al centro di esso, ora ai suoi limiti, nella portata terminologica che questo significa, ossia nel suo essere indefinito, noi andiamo verso l’uomo, noi cerchiamo sempre di comprenderlo, ossia di tenere insieme il suo rapporto, che prima era con l’universo, ma che oggi pare essere con il multiverso. Questa teoria dal quale l’intelligenza artificiale ha tratto il suo pensarsi, richiama all’opera di Leibniz, la Monadologia, in essa l’autore fa un chiaro richiamo ai possibili mondi che vi possono essere al di là di quello dato, che nella sua riflessione, risulta essere il migliore. L’intelligenza artificiale, così come le moderne tecnologie, che sono di ausilio in un campo quale quello lavorativo, rappresentano dei limiti strutturali, o meglio dei possibili modi di darsi dell’uomo, che se da un lato sono innovativi, dall’altro sembrano menomare e ledere la dignità della persona. Infatti, essi, spesse volte, sostituiscono il lavoro dell’uomo; e in un’epoca definita liquida, e dei non-luoghi, l’io rientra, in tal modo, appieno titolo. L’io dunque non c’è, dov’è finito? È rinchiuso in quella macchina o può essere altro? Le sue potenzialità possono esprimersi in altro modo, o questo sembra oggi essere l’unico modo di esprimersi dell’io? In che modo la coscienza dell’io si relaziona ai possibili modi o mondi in cui è immerso o circondato? Questi quesiti provocatori, richiamano di certo ad una riflessione ben più ampia. L’etos dell’uomo sembra essere cambiato, ma a quale compromesso? L’io ormai non attende, si va sempre più verso degli automatismi che non permettono di descrivere la realtà in modo significativo e dunque privano l’io del vissuto reale, che prima  esperivano le nostre madri, nonne, padri, nonni ad esempio nel lavoro in fabbrica. L’io come aveva preannunciato la teoria marxista è ridotto a struttura, non è più un essere in relazione con l’altro. Nonostante ciò se si considera anche la macchina come “altro” sarebbe interessante, in un mondo che cambia, comprendere qual è la potenza che l’io cela in sé, con cui egli entra in relazione. Tuttavia come prendersi cura di questo nuovo nascituro? Mi sembra interessante la percezione che egli può avere rispetto a questo nuovo mondo. L’io infatti può approcciarsi all’intelligenza artificiale, al robot, come sua rappresentazione o come sua raffigurazione? Se infatti l’io si dovesse rappresentarsi in quel robot, cadrebbe in un’alienazione da sé. Differente, invece, è se egli comprende che quell’altro che lo aiuta può essere un suo ausilio simile, una sua raffigurazione, in cui è presente una “forma umana”, ma con cui egli deve entrare in relazione affinchè il lavoro non risulti essere solo un artificio, ma rimanga un prodotto, ossia un portare verso. Ecco ci dev’essere una direzionalità, rimanendo nell’ambito matematico, l’io dev’essere un vettore, ossia deve avere un’intenzionalità, una direzione e un verso. Un altro paradigma tecnocratico che porta l’io ad essere artificio è l’identificazione con il prodotto, tipico di chi non rivolge il suo pensiero, ma risponde a dei comandi, lì andrebbe a sostituirsi alla macchina, a quel punto sarebbe interessante chiedersi: “Che fine ha fatto lo strumento di intelligenza artificiale? E infine rifuggire dal tentativo di andare oltre, ma pur sempre ricadendo dentro allo strumento, come di colui che entrando in una casa avverte il profumo di una rosa, ma conclude sostenendo che poiché c’è quell’essenza allora sicuramente ci sarà la rosa; così come di chi coglie la possibilità che quello strumento può rappresentare per essere d’ausilio all’uomo, ma ricade nell’idea che senza di quello l’io è finito. L’io non può sostenere ciò e anche lui stesso si oppone a questa logica, nell’atto in cui è entusiasmato e al tempo stesso avverte il desiderio, ossia una mancanza di qualcosa che potrebbe esserci, ma non riesce ad ulteriorizzarsi, resta inibito. L’io ha bisogno di vivere il lavoro, di creare quelle atmosfere tipiche di cui egli non può fare a meno, in quanto essere spirituale. L’io si trova inserito in questo spazio di mezzo in profonda tensione. E allora se l’intelligenza artificiale invita l’uomo a ripensarsi, è opportuno che egli non perda il suo nucleo di potenza, ossia il suo essere trascendente. In quest’ottica l’intelligenza artificiale può essere un modo di essere altro dell’uomo, ma l’io così come già sosteneva Martin Buber deve decentrarsi, non così come si è ribadito, per identificarsi, ma per poter dialogare.

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