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sabato, Luglio 27, 2024

Alla scoperta di Lecce. Santa Maria dell’Idria

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Nelle vicinanze di Porta Rudiae, fuori le mura di Lecce, sulla via che porta a Monteroni, a ridosso della linea ferroviaria, si incontra la chiesa con annesso convento S. Maria d’Idria, attualmente dimora dei Vincenziani o Padri della Missione.

Andando indietro tempo, ci si ferma al 1602, anno in cui il vescovo di Lecce, Scipione Spina, venuto a mancare il rettore Lucio Barba, affidò la cura di una piccola cappella, molto frequentata per la forte devozione per la Madonna dell’Idria, ai Frati Minori Osservanti. Tale concessione vescovile fu confermata anche dal Pontefice Paolo V col breve “Pro fidelium” del 09 aprile 1608.

Nel frattempo i frati, col contributo dell’ex rettore e del benefattore Raimondo Barba, trasformarono la cappella in una chiesa  adatta per la celebrazione delle funzioni e dei solenni riti, costruendo accanto anche un vero e proprio convento.  “Con qualche breve intervallo il Convento di S. Maria d’Idria ha funzionato come sede di formazione dei giovani novizi fino alla soppressione napoleonica di Gioacchino Murat tra il 1811 e il 1815”, annota lo storico Tommaso Leopizzi.

Dopo la soppressione, tutta la proprietà, convento, chiesa e giardini fu venduta dal demanio a tre diversi proprietari: al sacerdote ex celestino Pietro Montenegro, al giudice Benedetto Mancarella e a Giuseppe De Rinaldis: “questi si divisero in tre fazioni uguali il piano superiore dell’edificio e i giardini conventuali, ma lasciarono indivisi il piano terra del Convento, la Chiesa con la sacrestia e l’atrio antistante la Chiesa”.

Per più di trent’anni la Chiesa fu chiusa al culto e riaperta soltanto nel 1853, con una disposizione della Curia vescovile di Lecce, affidandone la cura prima al sacerdote leccese, ex cappuccino, Gabriele Greco, poi a don Cesare Gala, che il 17 dicembre 1884, per ordine della Curia di Lecce consegnò gli arredi sacri e le chiavi “ai Signori della Missione di S. Vincenzo de’ Paoli e ai Frati Minori”.

Con le leggi napoleoniche sia i Frati Minori che i Vincenziani furono costretti ad abbandonare la loro dimora “luogo dove poi – informa Leopizzi – sorgerà il grande Carcere di Lecce denominato dalla gente ‘bò-bò’ dal parlare francese dei religiosi vincenziani”.

Le vicende storiche chiariscono il motivo per cui entrambe le famiglie religiose desiderarono ritornare a dimorare sullo stesso luogo. Il risultato fu la convivenza non facile, in uno stesso complesso, di due famiglie di diversa ispirazione, che condividevano lo stesso luogo di culto, la Chiesa di S. Maria d’Idria.

Una situazione definita dallo studioso ‘non programmata, insolita, se vogliamo strana’, occasione preziosa, ma perduta di divenire già allora ‘laboratorio di spiritualità’: la vicenda si concluse con la partenza dei frati minori ricompensati con 26.000 lire.

I Vincenziani ristrutturarono quindi il convento, rendendolo idoneo al loro apostolato e dal 1901 fu loro fissa dimora.

Il 7 ottobre 1956 mons. Francesco Minerva elevò la Chiesa di S. Maria d’Idria a parrocchia cittadina.

La facciata rinascimentale, molto lineare, è a due ordini , movimentati  da quattro nicchie contenenti le statue di san Francesco d’Assisi, di sant’ Antonio da Padova, nel piano inferiore, di santa Chiara e di santa Irene, in quello superiore. Nel timpano spezzato è collocata la statua postuma di sant’Onofrio.
L’interno, che ha subito significative modifiche nel corso del Settecento, a navata unica e a croce latina, presenta due cappelle per lato con settecenteschi altari a colonne tortili realizzati in pietra leccese. Nel presbiterio è significativa la Gloria di san Vincenzo de Paoli attribuita ad Oronzo Tiso.

Il convento e la Chiesa di S. Maria d’Idria sono, ancora oggi, luogo di profonda spiritualità. Non solo, ma luogo di carità e accoglienza secondo il carisma vincenziano: testimonianza della fede con la coerenza della loro vita e del loro quotidiano agire. Attenti ai segni dei tempi la loro missione abbraccia i poveri, gli emarginati, gli uomini soli della città, nell’impegno costante del sostegno e promozione del fratello che soffre, ‘palestra’, nel globalismo contemporaneo, di umanità.

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