Amo leggere ed approfondire qualunque argomento che riguardi l’Italia dei misteri, l’Italia dei depistaggi, delle stragi, della P2, delle connessioni tra Stato e mafia.
Non v’è chi non ascrivi, tra i tanti martiri in nome dello Stato, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa , già Prefetto di Palermo, insignito della medaglia d’oro al valore civile alla memoria, vittima della strage di mafia del 3 settembre 1982 in via Carini a Palermo, dove morirono anche la giovane moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo.
Dalla Chiesa fu certamente ucciso da Cosa Nostra, ma, come dimostreranno i tanti documenti che per passione ho letto, non morì perché indagava sulla mafia. Il suo assassinio c’entra con i misteri del caso Moro.
Tutto quello che leggerete è tratto dalle relazioni delle commissioni d’inchiesta i cui documenti hanno da sempre appassionato la mia conoscenza e rafforzato la mia coscienza.
Il 9 maggio del 1978, il giorno del ritrovamento del corpo di Aldo Moro, molti giovani di quel tempo divennero vecchi. Sarebbe finita dopo qualche anno la repubblica italiana, avevano vinto i poteri forti.
L’immagine del corpo di Aldo Moro, stampata per sempre nella mia mente, riverso di lato nel cofano della Renault rossa, ricorda quella di Cristo morto nella Pietà di Michelangelo.
Alle 9 di una domenica del primo ottobre del 1978 a Milano un coraggioso capitano dei carabinieri, Roberto Arlati, fa irruzione nel covo di via Montenevoso a Roma dove si trova la copia del memoriale Moro che i brigatisti avevano battuto a macchina. Al capitano Arlati telefona il generale Dalla Chiesa al quale chiede di vedere questa documentazione e di portargliela subito in caserma. Doverosamente Arlati gli replica che se non lo autorizza il magistrato non può recapitargliela. Dalla Chiesa la pretende e manda il colonnello Bonaventura a ritirare la documentazione.
Il materiale, dopo essere stato consegnato a Dalla Chiesa, viene restituito ad Arlati quella stessa domenica alle ore 17, ma risulta notevolmente ridotto rispetto agli originali che il capitano aveva rinvenuto in via Montenevoso .
Quando il colonello Bonaventura nell’ottobre dello stesso anno deve essere sentito dal magistrato a proposito della parte mancante della documentazione, stranamente muore a 51 anni da solo in casa di infarto. Bonaventura è un uomo sano e qualche medico all’epoca dirà che furono rinvenute tracce di un’erba, la digitalis purpurea, il cui semplice strofinamento sul corpo procura l’immediato arresto cardiaco.
Sempre in quell’ottobre del ’78, il Generale Dalla Chiesa chiama il maresciallo Angelo Incandela, capoufficio del carcere di Cuneo e gli chiede di vederlo a mezzanotte nel carcere. I due si incontra fuori dal supercarcere di Cuneo. Incandela arriva, vede una Spider rossa, riconosce il Generale, gli si siede accanto.
Il generale facendo riferimento alla vecchia amicizia col maresciallo, gli chiede di fare una ispezione all’interno del carcere perché lui è convinto che sia entrato un “ salame “ e che nel salame ci siano carte di Aldo Moro . Incandela gli spiega che il carcere è immenso e che occorre molto tempo per trovare quei documenti .
A quel punto il guidatore dell’auto si gira e dando una pacca sulla spalla al Generale Dalla Chiesa gli dice: “Generale riferisco io al tuo amico in quale punto troverà il salame : nella cloaca del carcere “.
Incandela dopo le dovute ispezioni trova il salame e lo consegna al generale.
Dopo poco tempo Dalla Chiesa chiede ad Incandela di riportare il salame nella cloaca del carcere. Il Maresciallo accenna un rifiuto affermando che commetterebbe un reato ed il Generale gli risponde testualmente: ” anche con i reati si salva la patria “.
Incandela il 20 marzo del 1979 sta cenando nel carcere di Cuneo e guarda il telegiornale che racconta dell’assassinio di un giornalista. Il maresciallo nel vedere le immagini riconosce in quel volto l’autista del generale Dalla Chiesa.
Quel giornalista assassinato si chiamava Mino Pecorelli. Pecorelli è iscritto alla P2, ha scritto sul suo giornale O.P. la notizia che avrebbe pubblicato alcune foto che dimostrerebbero come in via Fani, luogo dell’eccidio della scorta di Moro e del suo rapimento, non c’erano solo le brigate rosse, ma anche uomini dei servizi segreti italiani ed internazionali.
Mino Pecorelli è iscritto alla P2 come lo è anche Carlo Alberto Dalla Chiesa e come Romolo Dalla Chiesa, anch’esso generale, fratello del più famoso Carlo Alberto.
Il generale Dalla Chiesa, come detto, viene ucciso dalla mafia a Palermo nel 1982 e quella sera la mafia, per la prima volta, uccide una donna, Emanuela Setti Carraro, la giovane moglie .
Perché uccidere una donna? Perché nella borsetta della signora Dalla Chiesa ci sono le chiavi di casa e le chiavi della cassaforte.
I mafiosi entrano nella casa del Generale, collocata nella Prefettura di Palermo, e rubano dalla cassaforte delle carte lasciando la pistola e i soldi. La suocera di Dalla Chiesa nel processo Andreotti riferirà che in quella cassaforte la figlia le aveva sempre detto della presenza dei documenti riguardanti Aldo Moro ed in particolare della esistenza di bobine registrate relative agli integrali interrogatori tenuti da Moro sequestrato, bobine che i brigatisti hanno sempre, falsamente, dichiarato di aver distrutto.
Perché il generale Dalla Chiesa abbia trattenuto per sé quella documentazione non lo sapremo mai; certo è che nemmeno lui avrebbe potuto e dovuto tenere nascosti documenti indispensabili per accertare una verità di Stato.
Purtroppo questo lo ha portato alla morte.
Pochi anni fa nel carcere di Opera a Milano una intercettazione ambientale registra le parole che nell’ora d’aria si scambiano tale Lorusso, ergastolano di Montemesola di Taranto e Salvatore Riina, detto il capo dei capi . Riina spiega perché è stato ucciso Dalla Chiesa. Non per mafia ma, come dice lui, per “fottergli” le carte di Moro.
Cossiga dirà che quando Dalla Chiesa è morto, essendo un eroe nazionale, hanno fatto sparire la sua richiesta di adesione e accettazione alla Loggia P2.
Come diceva Tina Anselmi, la P2 era una associazione criminale e ne facevano parte tanti uomini dei servizi, della finanza, dei carabinieri, della polizia, della magistratura, del giornalismo, del clero che contava, del mondo dell’impresa e della politica italiana.
Gli elenchi sequestrati in casa di Licio Gelli ci daranno lo spaccato di un’Italia criminale che combatte l’Italia onesta, di istituzioni colluse con i poteri internazionali, con la Mafia e con la banda della Magliana.
I veri eroi sono altri.