Per avere effettuato il salvataggio di un bambino che stava soffocando per una lisca conficcatasi nella gola, san Biagio ha il patronato su di essa; invece, per essere stato scarnificato con pettini di ferro, i contadini e coloro che per mestiere utilizzano gli stessi arnesi, come cardatori e tessitori, lo hanno assunto come patrono, e pure chi suona strumenti a fiato.
Durante la celebrazione della festa dedicatagli, riappaiono i ceri che si sono benedetti il giorno della Candelora, quando il sacerdote, incrociando due candele, tocca la gola dei fedeli.
Un tempo il 3 febbraio si aspettavano segnali tali da fare sperare che il freddo finisse o che si attenuasse. Ne è testimonianza il proverbio panitaliano ‘il barbato, il frecciato, il mitrato: il freddo è andato’. Il primo identifica sant’Antonio Abate (17 gennaio), il secondo san Sebastiano (20 gennaio) e il mitrato il vescovo san Biagio.
A san Biagio erano dedicate feste d’impronta prettamente rurale che sopravvivono a Ugento ed a Calimera; in questo capoluogo della Grecìa Salentina, dove il santo è popolarmente denominato Santu Lasi, l’appuntamento è popolarmente indicato come “San Biagio alla macchia”, con cui si indica l’antico bosco che contornava il paese, dal quale i craunari, carbonai, raccoglievano alberi (lecci e querce) e arbusti per ricavarne carbone e carbonella.
Lecce annovera una porta urbica (costruita nel 1774) che, insieme ad altre tre, si apriva nelle mura antiche. Fu intitolata a san Biagio perché, secondo lo storico Girolamo Marciano, fu il varco da cui fuggì il santo e, in memoria di questo fatto (che le memorie storiche non riportano), la cittadinanza la dedicò “in perpetua memoria del suo santo cittadino” e compatrono.
Una piccola curiosità: dentro il pinolo vi è una specie di microscopica manina con le sue cinque dita. Secondo alcuni è la mano della Vergine, mentre per i leccesi è la mano di san Biagio o, in alternativa, di santo Stefano.
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