Con ogni detto su San Vito, Lequile ha una storia da raccontare, una lezione da insegnare o un consiglio da offrire. Essi non solo aggiungono colore e peculiarità al linguaggio parlato nella zona, ma fungono anche da tramite per trasmettere valori, tradizioni e il senso di comunità che caratterizza questo affascinante angolo di Puglia. In questo modo, i detti su Santu Itu diventano non solo un mezzo di comunicazione, ma anche un patrimonio culturale che continua a vivere nelle conversazioni quotidiane della comunità, come dettagliatamente riportato sul sito del Comune di Lequile.
“Nei tempi passati la vita domestica, sociale e agricola era legata e a volte si faceva dipendere dalle feste o dagli avvenimenti riguardanti la vita della Madonna e dei Santi; avendo presente i particolari della loro storia e della loro testimonianza si coniavano numerosi detti e proverbi che entravano a far parte della cultura popolare. Nel nostro paese si ricordano in riferimento a San Vito alcuni detti”.
“Sta rria lu Santu cu li stuali“: si avvicina la festa del Santo con gli stivali. San Vito, a partire dal ‘700, è raffigurato con la tunica corta, propria de giovinetto romano, e con i tipici calzari dell’epoca. La festa liturgica del 15 giugno coincide con un periodo stagionale che nel calendario agreste dell’antico mondo mediterraneo aveva una particolare importanza, legata all’arrivo dell’estate e soprattutto alla mietitura del grano. Si entra nella costellazione del Cane, assai importante per i contadini. C’era la paura dei pericoli causati dalla “canicola” che poteva distruggere la messe e diffondere malattie infettive e contagiose.1 In questa stagione dai fenomeni atmosferici dipendeva la qualità del raccolto e quindi il frutto di un lungo e sudato anno di lavoro. Il solstizio d’estate coincideva con la festa di San Vito che, avendo vicino a sé i cani (= canicola) veniva invocato affinché portasse buoni auspici e liberasse i campi dalla siccità e da ogni pestifera devastazione.
“Te Santu Itu ogni fica cerca maritu” “Te Santu Itu ogni fica ole lu mbruficu“. Nell’approssimarsi della festa di San Vito, il contadino appendeva alcuni profichi (= “li mbrufichi”) ai rami dell’albero di fico per facilitare il processo di impollinazione dal frutto selvatico al fico commestibile. La possibilità di raccogliere abbondanti fichi, frutti dolci da mangiare freschi, ma soprattutto da conservare per l’inverno, dopo essere stati essiccati al sole e cotti al forno, era in quel tempo una ricchezza. Sino ad alcuni decenni fa i fichi secchi erano un alimento molto gradito, specie a colazione, per la loro dolcezza e per il potere nutritivo. In tempi di guerra o di calamità una tasca piena di fichi secchi era l’unico nutrimento per una giornata di lavoro con la pesante zappa.
“Te Santu Itu ‘ngira l’ulitu”: a San Vito matura l’uliveto. Nel mese di giugno l’agricoltore guardava l’albero d’ulivo e poteva fare i calcoli sulla quantità di ulive che avrebbe potuto raccogliere in quell’anno. Il frutto dell’ulivo infatti si liberava dell’infiorescenza ormai secca e si presentava già come piccola uliva verde e lucente.
“Tamu lu pane allu cane te Santu Itu”: “Diamo il pane al cane di San Vito“. Il pane, in passato, era considerato cibo benedetto e si riteneva un peccato se si gettava tra i rifiuti; se cadeva per terra subito si raccoglieva e si baciava prima di essere mangiato. Qualora fosse immangiabile o si doveva forzatamente gettare non si faceva peccato se si “dava al cane di San Vito”, cioè in pasto al cane o altro animale da cortile.
“Santu Itu cu te raggia”: “San Vito ti punisca con la rabbia”. È una delle più gravi maledizioni che si chiedeva a San Vito di far cadere su una persona nemica e odiata. Ovviamente San Vito non ha mai ascoltato questa invocazione, perché lui è patrono dei cani, dal cui morso rabbioso difende i suoi fedeli. Però sappiamo che la rabbia era dovuta al morso del cane idrofobo oppure della serpe o alla puntura di altro insetto velenoso, (per es. ragni, scorpioni), e procurava al morsicato indicibili dolori ed un incomposto e frenetico agitarsi del corpo. Per cui volendo del male a una persona si inveiva contro l’avversario affinchè soffrisse i gravi dolori provocati dalla rabbia.