Il Giornale del Salento

L’ineludibile necessità di giocare  

Comincio da alcuni recenti, incresciosi fatti di cronaca, protagonisti gruppi di balordi che, in alcuni centri della Puglia, hanno divelto testimonianze storiche, allestimenti presepiali pubblici, scritto sui muri frasi oscene e, in ultimo in ordine di notizia, si sono scagliati contro un inerme conducente dell’autobus dove erano saliti. Cerco di giungere ad una riflessione che mi piacerebbe condividere con chi legge.

La riflessione è scaturita in seguito ad una ricerca che sto conducendo sui giochi e i giocattoli del passato nel Salento, non del tutto remoto, non ancora tecnologizzato. Attraverso una corposa documentazione raccolta negli anni, lasciata in pausa perché occupata a scrivere su altri temi di cultura salentina, riprendendola in mano, ho riflettuto sulle considerazioni espresse dai principali esperti in materia, ed ho riscoperto un mondo affascinante che rotea attorno al significato del gioco ed alle sue molteplici valenze di ordine psicologico, cognitivo e formativo, da non sottovalutare affatto. Per esempio, è istintivo entrare nel cerchio magico del gioco e, se ciò non accade, può avere ripercussioni negative sulla personalità del bambino.

Uno dei tanti segni che identificava i giochi del passato era l’abilità unita all’intelligenza del giocatore nel sapere centrare un obiettivo con lu currulu o le noci ammonticchiate, colpendole con un’altra noce. Oltre il giocattolo, era caratteristico il fragore, la rumorosità con cui venivano eseguite alcune gare dal gruppo di “monelli” negli slarghi urbani, nei vicoli, nei cortili del centro storico, vicino casa e, insomma, all’aperto. Poi vi era la corsa, il tafferuglio, il vociare annesso oppure la competizione tra una squadra di giocatori e l’altra; il godimento avveniva quando si creava movimento, dinamismo che, spesso, quand’era incontrollato – ovvero sempre –, si affiancava alla sistematica rovina degli oggetti incontrati lungo la corsa, a cui seguiva, al rientro a casa, una scarica di botte e di scapaccioni, data dalla mamma che credeva così di educare il figlio “tremendo” e incorreggibile a rinsavire. Macché!

Così comportandosi, i bambini liberavano o sfogavano emozioni e tensioni. E, tuttavia, crescevano. Quando giocavano in gruppo, trasferivano innate capacità di relazione, di competizione, di misurazione di sé, e via elencando; spesso, si sentivano protagonisti di una storia, artefici di un mondo immaginato, di una condizione sognata e sognante.

Servivano necessariamente gli strumenti ludici? Ma no! Bastava una fionda ricavata da un ramo d’albero o una pala di fico d’India trasformandola in un carretto o una manciata di noci come bersaglio da colpire con una noce più grossa. Insomma, non era difficile trascorrere un’infanzia felice pure in assenza di giocattoli ideati dagli adulti. L’importante era essere e sentirsi bambini dentro e, all’occorrenza, sfoderare lo spirito della competizione, l’ingegno, la capacità di prevalere sugli altri.

Oggi, i giochi appena accennati, sono stati sostituiti da sistemi ludici tecnologici e telecomandati. Sono al passo coi tempi. Certo! Inutile negarlo. Ma quanto insegnano al bambino di rispettare le regole e di assumere un atteggiamento che non nuoccia a sé e agli altri?

Forse, là dove si può, sarebbe il caso di ripristinare i vecchi giochi del passato che vedevano il bambino al centro del meccanismo ludico e gli consentivano di conoscere un mondo abitato da piante, uccelli, vermi, da terra da toccare con le proprie mani per scoprire incantesimi nonché un’umanità necessaria, fondamentale per farlo crescere nel migliore dei modi. Integro. Capace. Sicuro.

Alla luce di queste considerazioni estremamente sintetiche, del tutto personali e perciò contestabili, viene il dubbio che: le bravate contemporanee di chi assalta, siano intanto dei messaggi di disagio e servano a scaricare un’intima supremazia che rode dentro – come una fiamma continuamente accesa  –, soffocata chissà da quanto tempo; questi super man da quattro soldi, non abbiano mai giocato da soli o con i coetanei e, quindi, non abbiano avuto modo di elaborare una concezione di condivisione con gli altri o di misurazione di sé stessi, di dovere rispettare norme e comportamenti necessari al buon andamento del gioco. Come potrebbe essere definita metaforicamente la vita. 

D’istinto viene il dubbio che le bravate compiute stiano sostituendo i giochi non giocati.

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