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sabato, Novembre 23, 2024

Antichi mestieri:’lu cantu te li traìni’

Da Leggere

Salvatore Francioso
Salvatore Francioso
Funzionario del Servizio Tutela e Valorizzazione Ambiente Provincia di Lecce

Sin dai tempi antichi si andò sviluppando nel Paese, in particolare nei piccoli centri a vocazione agricola come quelli del basso Salento, il mestiere del carpentiere, non inteso nel significato odierno di falegname impiegato nei cantieri edili, ma inteso come quello del falegname costruttore di carri da lavoro (dal latino carpentum), anche detti traìni, adibiti prevalentemente al trasporto di merci e occasionalmente di persone e condotti dai trainieri.

I maestri carpentieri attendevano anche alla costruzione di telai per la tessitura ad uso domestico, di aratri, di manici di zappe (margiali) ed altri attrezzi rudimentali.

Tale mestiere ebbe fine con il sopravvento degli autocarri con motore a scoppio, intorno al 1950.

Lu traìnu, interamente in legno, era costituito nelle sue parti essenziali da un solido pianale di legno (littèra) lungo circa 2 m e largo circa 1 m, con sponde laterali (‘ncasciàti) alte un metro circa, montato su due grandi ruote cerchiate di ferro, unite da un asse in ferro (assu), sul quale veniva fissato il pianale rettangolare, e completato da due stanghe, cui veniva attaccato l’animale da tiro, asino o cavallo, che ne prolungavano la lunghezza quasi fino a 4 m.

Le dimensioni considerevoli delle sue ruote, a dodici raggi, con un diametro di 160 – 180  cm, tanto alte da superare quasi le sponde, erano necessarie per attenuare i sobbalzi del carro provocati dalle asperità (buche e ciottoli) delle strade sterrate di campagna.

Elementi accessori che completavano il carro erano:

  • il predellino di ferro (staffa) per salire;
  • la martinicca, congegno azionato manualmente, che avvicinava alla ruota una piastra di ferro, fungendo da freno;
  • le sponde più piccole (tampàgni o ‘ncasciàteddi), le quali, quando venivano poste trasversalmente, chiudevano il letto del carro, consentendo il trasporto di materiali quali la terra e il letame, quando venivano tolte, invece, facilitavano le operazioni di carico e scarico;
  • la frusta (scurisciàtu);
  • l’ombrello, per ripararsi dalla pioggia e dal sole;
  • il lume a petrolio, da appendere sotto la sponda posteriore del carro per segnalarne la presenza sulla strada nelle notti senza luna;
  • la provvista di paglia, contenuta in una capace rete, appesa sotto il letto del carro, quando si effettuavano lunghi viaggi;
  • il secchio per far bere l’animale.

La portata di questi carri si misurava in quintali. I proprietari dei veicoli pagavano una tassa di circolazione in base alla capacità di carico e alla larghezza dei cerchioni di ferro delle ruote.

A dimostrazione del tributo pagato si applicava ben in vista una targhetta metallica, nella quale erano riportati le generalità del proprietario, il comune di residenza, il numero di matricola, la tara e il peso complessivo del rotabile a pieno carico.

Ogni parte del carro veniva costruita esclusivamente a mano: i pezzi in legno venivano creati con l’aiuto di seghe (a nastro o a telaio), pialle a mano, torni a pedale, asce, accette, martelli, scalpelli, raspe levigatrici; le parti in ferro venivano forgiate a mano da abili fabbri, che tempravano nel fuoco gli assi e riuscivano ad ottenere dei cerchi perfetti da applicare alle ruote con la funzione di battistrada.

Quello del carpentiere era un mestiere duro, che richiedeva estrema precisione nella fase preliminare di disegno e realizzazione delle misure, che richiedeva forza e abilità sia nella sgrossatura che nella rifinitura delle parti in legno e nell’assemblaggio finale.

Nelle officine vi erano cataste di assi di faggio, o altro legno duro, appoggiate le une sulle altre in luoghi freschi e ventilati, per favorirne la stagionatura.

Mediamente per la costruzione di un carro occorreva un mese di lavoro per due persone.

La parte più difficile da realizzare di tutta la struttura erano le ruote.

Si iniziava con la costruzione del mozzo, a forma di barile, lungo circa 40 cm: si sgrossava a mano con l’ascia, una piccola zappa col filo del taglio orizzontale e con il ferro innestato su un piccolo manico con angolatura di circa 45°; dopodiché si rifiniva al tornio.

Sulla circonferenza maggiore, al centro del barilotto, venivano praticati trasversalmente, con un trapano a mano o con un trapano verticale con movimento meccanico, 12 fori ovali equidistanti che costituivano gli alloggiamenti per la raggiera.

Poi venivano applicati quattro anelli di ferro, due da un lato e due dall’altro lato dei fori, per evitare lo sfaldamento del mozzo a causa della compressione dovuta al trasporto dei carichi, che potevano arrivare fino al peso di 20 quintali.

Infine, veniva scavato con il tornio il foro centrale del mozzo per consentire l’alloggiamento dell’asse (assu), previa introduzione di un anello in ferro che si incastrava perfettamente nel foro fungendo da boccola.

Prima dell’innesto delle ruote veniva applicato del grasso animale sulle estremità dell’asse (fuselli).

Le ruote venivano poi montate facendo attenzione che fossero perfettamente parallele fra loro e venivano bloccate per mezzo di perni che ne impedivano il movimento assiale.

Si realizzavano, quindi, dodici raggi di 65 cm a sezione ovale, tutti realizzati a mano con lavoro d’ascia e di raspa, e sei archi di circonferenza, disegnati con l’ausilio di grandi compassi di legno e tagliati nel legno con seghe a nastro: prima venivano piantati i raggi nel mozzo, poi venivano inseriti gli archi sui raggi e, quindi, incastrati gli archi fra loro, mediante tagli a incastro sulle estremità.

Il montaggio del cerchione di ferro costituiva la parte finale del lavoro: veniva in bottega il fabbro e misurava con uno spago la circonferenza della ruota per costruirne una uguale in ferro (leggermente più piccola), unendo gli estremi per mezzo di incastri.

Alle tre di notte veniva acceso un fuoco circolare tutt’intorno a ciascun cerchione che, ben presto, si arroventava e si dilatava; a questo punto, il fabbro (aiutato da almeno tre persone), mediante grosse pinze, lo sistemava intorno alla ruota a colpi di martello, facendolo scendere simultaneamente su tutti i punti della circonferenza.

Bisognava prestare attenzione perché il legno non prendesse fuoco e che il cerchio fosse in posizione precisa prima del raffreddamento.

Subito dopo si provvedeva, con alcune secchiate di acqua, a raffreddare il ferro, perché potesse ben aderire al legno.

Per evitare che, col tempo, si sfilassero, i cerchioni venivano ancorati alle ruote con sei chiodi.

Il cerchio di ferro che fungeva da battistrada era detto lu cantu; il lavorodi ricopertura della ruota con il cerchio, fatto dal fabbro come sopra descritto, era detto ‘ncantatura; la perdita del cerchio a causa dell’usura della ruota veniva detta scantatura, cioè perdita del cantu.

In effetti il nome attribuito al cerchio di ferro derivava dalla parola canto, ovvero l’esecuzione vocale di una melodia, in quanto si paragonava alla bellezza del canto il suono metallico delle ruote sulle strade acciottolate, quando esse era state ben ferrate e quando l’equilibratura delle stesse e la convergenza (posizionamento in parallelo tra loro e in perpendicolare con l’asse) erano state perfettamente eseguite.

Dal cantu delle ruote si capiva se tutto il carro (lu traìnu) era ben costruito (cioè solido ed equilibrato).

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