Gli aiuti di Conte sono stati irrisori per la gran parte delle partite iva e sono arrivati, spesso, a chi non dovevano arrivare e, viceversa, non sono arrivati a chi dovevano arrivare. L’unica possibilità per consentire alle micro imprese, sfiancate dagli effetti economici negativi legati alla pandemia, di prendere fiato e riprogrammare la ripresa sarebbe quella di non far pagare loro le tasse.
Questo “regalo” costerebbe alle casse dello Stato 28 miliardi di euro. Certo, una cifra abnorme, ma se pensiamo agli sprechi tuti italiani di ogni anno pari a circa 200 mld, si tratta di una cifra davvero modesta. E anche se il mancato gettito fosse di 28 miliardi di euro, sarebbe comunque inferiore agli aiuti erogati quest’anno al sistema produttivo, che fino ad ora ammontano a circa 30 miliardi. Il vantaggio sarebbe nel far rimanere nelle casse di ogni singolo imprenditore le tasse che paga, risultando così un aiuto molto più giusto rispetto agli aiuti a pioggia. Con 28 miliardi di liquidità alle imprese si creerebbero le basi per far ripartire l’economia del Paese.
Diversamente, rischiamo una moria d’imprese senza precedenti. Per evitare tutto questo bisogna intervenire rapidamente. Tanti artigiani e piccoli commercianti sono allo stremo, ma possono ancora risollevarsi se il Governo varerà tali provvedimenti per il nuovo anno. Un 2021 senza tasse. Questo è tutto, ma anche una burocrazia meno oppressiva.
Riguardo alla semplificazione, la pensa così anche l’Agenzia delle Entrate. Intanto è necessario eliminare l’attuale sistema di pagamento delle imposte, quello degli acconti e dei saldi, consentendo alle aziende di pagare le tasse solo su quanto hanno effettivamente incassato e non sulla base del reddito dell’anno precedente. In tal modo si eliminerebbe anche la formazione di crediti fiscali e la conseguente attesa dei rimborsi. Mi spiego meglio. In Italia il principio è che il piccolo imprenditore non paga le tasse (il saldo) solo su ciò che ha dichiarato l’anno precedente, ma anche su quanto guadagna nell’anno corrente, come “acconto” per il pagamento delle tasse che andranno versate nell’anno seguente. Ovverosia, va a credito o a debito con il fisco per l’annualità che deve ancora venire. In altri termini, il versamento delle imposte all’erario avviene in due tranche: la prima tra fine giugno e inizio luglio, la seconda entro la fine del mese di novembre.
L’ammontare degliacconti è pari al 100% dell’imposta dovuta per l’anno precedente e viene solitamente versato in due rate a giugno e a novembre. Entrambe sono uguali per ‘i soggetti ISA’ (cioè coloro i quali svolgono attività economiche per le quali sono stati elaborati gli Indici Sintetici di Affidabilità), mentre per gli altri contribuenti, la prima rata corrisponde al 40% del dovuto, e la seconda al 60%. Questomeccanismo genera spesso problemi finanziari, perché è difficile per l’imprenditore prevedere quanto dovrà pagare. La situazione, infatti, è equilibrata solo quando non vi sono evidenti differenze di reddito tra un anno e l’altro.
Nel caso in cui il reddito risulti essere più basso di quello registrato l’anno prima, l’imprenditore va a credito, in quanto gli acconti di imposta sono stati calcolati su un reddito più elevato. Se, invece, si verifica un forte incremento di reddito, la situazione si capovolge. Il contribuente va a debito e nella scadenza di giugno è chiamato a pagare un saldo di imposta molto impegnativo, perché gli acconti calcolati l’anno prima sono stati sottostimati.
Insomma, se l’Esecutivo vuole davvero aiutare le imprese, le esoneri dal pagamento delle tasse per un anno ed il gioco è fatto. Tutto sarebbe più veloce e giusto.