di Giuseppe DE LORENZIS
Quarantuno anni fa, il 17 giugno 1983, venne ingiustamente arrestato Enzo Tortora per quello, che pochi anni dopo, si rivelò un clamoroso errore giudiziario. Tortora in primo grado venne condannato a 10 anni. In appello venne assolto con formula piena dai giudici ai quali gridò la sua innocenza: ma intanto aveva subito una mortificante e umiliante carcerazione preventiva, una barbarie, dalla quale non si sarebbe più ripreso.
Oggi 17 giugno è stata inaugurata a Roma, nel luogo in cui fu arrestato, una stele che ricorda il tragico evento, all’epoca amplificato dalla notorietà del personaggio e dalla speculazione mediatica. Un uomo sbattuto in prima pagina, dato in pasto all’insaziabile brama di sensazionalismo.
Tortora non va dimenticato, ma, ahimè, la storia non ci ha insegnato nulla.
Giordano Bruno, frate di Nola, grande filosofo, condannato al rogo dal Tribunale dell’Inquisizione nel 1600, rivolto ai suoi giudici, affermò: “Forse tremate più voi nel pronunciare contro di me questa sentenza che io nell’ascoltarla”.
Il 9 giugno 1889, in Campo dei Fiori a Roma, esattamente nel luogo della sua esecuzione, venne inaugurata la statua in onore del grande filosofo.
A distanza di secoli, le vicende umane appaiono come due anelli della stessa catena, due lacrime dello stesso pianto: Tortora, di fronte ai suoi giudici, quelli della Corte di appello di Napoli, tuonò: “Devo concludere dicendo: ho fiducia. Io sono innocente, lo grido da tre anni, lo gridano le carte, lo gridano i fatti che sono emersi in questo dibattimento. Io spero, dal profondo del cuore che lo siate anche voi”.
I due casi, seppur diversi nell’epilogo, sembrano quasi sovrapponibili: il destino di un uomo affidato all’incerto, potenzialmente fallace, giudizio di un altro chiamato a giudicarlo.
L’arresto di Tortora è ancora vivo nella memoria di molti di noi, ma fu il frutto di un sistema processuale non perfettamente garantista, una chiara dissonanza in un ordinamento basato, invece, sulla tutela dei diritti inviolabili della persona.
Eppure le democrazie occidentali, sebbene siano state illuminate da secoli di garantismo di matrice anglosassone, – l’ “Habeas Corpus” già riconosciuto nel 1215 dalla “Magna Charta Libertatum” concessa dal Re d’Inghilterra Giovanni Senza Terra- ancora oggi fanno fatica a disciplinare e limitare l’uso della misura cautelare personale ai casi in cui essa effettivamente sia indispensabile.
Le leggi ci sono, ma l’applicazione di esse talvolta sfugge a ogni umana comprensione e si traduce in aridi automatismi che non lasciano scampo, in algoritmi inesorabili che nutrono e rassicurano la coscienza dell’uomo che le osserva.
Non si dovrebbe mai assistere a una privazione della libertà personale non confermata da una sentenza definitiva, inoppugnabile e giusta. A volte succede, invece, che la misura cautelare non trovi adeguato riscontro nella sentenza che conclude il processo, fino al punto di privare la persona della libertà prima della sentenza che la assolve, nonostante operi la presunzione di innocenza per tre gradi di giudizio.
Dal 1992 al 31 dicembre 2023, si sono registrati 31.175 casi di errori giudiziari: è un dato che dovrebbe far riflettere. Sarebbe opportuno, quindi, utilizzare la misura cautelare nelle ipotesi in cui certa può riconoscersi la responsabilità della persona, secondo una prognosi che dovrà necessariamente attendersi come positiva, in cui vi siano anche e contemporaneamente esigenze di difesa sociale: solo nell’ultimo anno sono riportati 619 casi di ingiusta detenzione, cifre inconcepibili e inconciliabili con uno stato che affonda le radici in una Costituzione garantista.
Beniamino Zuncheddu è stato riconosciuto non colpevole dopo ben 32 anni di carcere!
Se questi sono i numeri, vuol dire che ancora non abbiamo fatto tesoro di quanto la storia ci ha insegnato e la giustizia rimarrà solo una parola dall’alto contenuto etico, ma svuotata del suo significato più nobile.