Era il 19 Luglio del 1992 quando Paolo Borsellino fu fatto esplodere in via D’Amelio, sotto la casa della madre, insieme agli agenti della sua scorta, Agostino Catalano, Walter Cosina, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli e Emanuela Loi, esattamente 28 anni fa.
Non mi cimenterò in ricostruzioni di cronaca, a tutti ben note, ma solo in riflessioni semplici, necessarie a stimolare le sensibilità, specie dei più giovani.
Dopo Capaci via D’Amelio, dopo Giovanni Falcone Paolo Borsellino, in mezzo una parentesi di 57 giorni, sufficienti per accertare che ci siano state delle menti raffinatissime che hanno armato la Mafia, quel breve periodo in cui in realtà si incardina la trattativa tra Cosa Nostra e pezzi dello Stato.
Pochi giorni prima di morire Falcone disse:” il vigliacco muore più volte al giorno, il coraggioso una volta sola “e poi l’intervistatrice gli domandò “: questo significa che lei non ha paura?” E lui rispose:” l’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, ma convivere con la propria paura, non farsi condizionare dalla stessa, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza “.
Commemorare prima Falcone e poi Borsellino non basta. Questi fatti non sono solo crimini di mafia, abbiamo il dovere di chiederci se tutto quello che è successo è solo ascrivibile a Totò Riina e alla mafia. Questo è il punto.
Al momento della strage, pochi attimi dopo l’esplosione, fu visto allontanarsi da via D’Amelio con sotto braccio qualcosa, la così detta <agenda rossa> di Borsellino, un alto funzionario dello Stato, un Dirigente della Polizia, il Dr. Bruno Contrada divenuto poi simbolo dei rapporti Stato-Mafia, forse capro espiatorio a nome dei servizi segreti. Ed ecco il colpo di scena: dopo 28 anni, esattamente mercoledì scorso, il giornalista Saverio Lodato rivela un segreto tenuto nascosto per volontà di Falcone che glielo aveva confidato dopo il tentativo di uccisione da lui subito all’Addaura a Palermo. Gli confidò di aver capito di essere invischiato in quella che poi sarebbe diventata la trattativa Stato-Mafia e non credeva più alla favola che la Mafia agisse senza la complicità dello Stato Italiano, di menti raffinatissime e fece il nome del super poliziotto, super agente dei servizi segreti Bruno Contrada.
Possiamo accontentarci delle verità giudiziarie sin ora acquisite? I risultati ottenuti sul piano giudiziario non sono di poco conto, però vengono fuori non solo delle ombre, ma piuttosto una concreta possibilità che quella verità giudiziaria ricostruita sia ancora una verità parziale e una verità parziale è sempre una verità negata. Proprio partendo da quanto di importante la Magistratura ha fatto, lo Stato in tutte le sue articolazioni, ha il dovere morale, non solo nei confronti delle tante nostre vittime, ma soprattutto nei confronti del nostro Paese, di approfondire, di non avere paura delle conseguenze delle ulteriori indagini e delle possibili discovery. Lo Stato non può aver paura di far venire fuori realtà scomode per sé stesso, lo Stato non può nascondere la polvere sotto il tappeto, non può pretendere di “sciacquare i panni sporchi in famiglia”.
Abbiamo il dovere di far emergere tutto quello che non è ancora emerso. La libertà, la democrazia di un Paese si misura dalla sua capacità di fare i suoi conti con il passato e con la verità.
L’agenda rossa di Paolo Borsellino, che lo accompagnava sempre e nella quale il giudice appuntava tutto, pensieri, incontri e riscontri, vi era la consacrazione di quello che lui aveva capito ed accertato.
Quando ancora fumavano le carcasse delle auto in fiamme, venne ritrovata la sua borsa e l’agendina; la borsa fu consegnata, l’agendina fu fatta sparire. Dirà la moglie, la Signora Agnese, che quattro giorni prima di saltare in aria in via D’Amelio, un Borsellino angosciato le confidò che il Generale Antonio Subsanni, allora Comandante del Ros Carabinieri, era un uomo “punciuto” che vuol dire uomo d’onore. Sarà accertato dalle Sentenze Giudiziarie che in quei momenti alcuni ufficiali del Ros dei Carabinieri trattavano a Palermo con Vito Ciancimino; era la conferma dei rapporti Stato-Mafia.
Mentre Paolo Borsellino angosciato andava incontro alla sua morte, c’era una parte dello Stato che chiedeva a Riina cosa volesse per interrompere la catena di attentati, È un dato di fatto acclarato nei vari processi giudiziari. Paradossalmente quel rapporto rafforzò il convincimento di Totò Riina di andare avanti nella strategia del ricatto allo Stato a forza di bombe ed attentati.
Paolo Borsellino, pochi giorni prima di morire, rilasciò un’intervista al giornalista di Repubblica Peppe D’Avanzo, oggi scomparso. D’Avanzo gli domandò: “a lei andrà al processo di Caltanissetta per ricostruire da esperto di mafia le cause e gli autori della strage di Capaci?” e il giudice così gli rispose in modo secco, una risposta che oggi assume un significato agghiacciante:” io sono un magistrato e non andrò a Caltanissetta per riferire ricostruzioni, ma fatti precisi e circostanziati”.Borsellino non andò mai a Caltanissetta, non raccontò mai tutto quanto era il contenuto della sua agendina rossa.