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giovedì, Novembre 21, 2024

Coronavirus e terzo millennio: al Manzoni l’ardua sentenza

Da Leggere

Flavia Carlino
Flavia Carlino
Studentessa di Economia & Management presso l'Università Bocconi di Milano

«Il 4 di luglio, come trovo in un’altra lettera de’ conservatori della sanità al governatore, la mortalità giornaliera oltrepassava i cinquecento. Più innanzi, e nel colmo, arrivò, secondo il calcolo più comune, a mille dugento, mille cinquecento; e a più di tremila cinquecento… Bisognava tener fornito il lazzeretto di medici, di chirurghi, di medicine, di vitto, di tutti gli attrezzi d’infermeria; bisognava trovare e preparar nuovo alloggio per gli ammalati che sopraggiungevano ogni giorno».

A.Manzoni, “I promessi sposi”, Capitolo XXXII.

Isolamento, timore reverenziale nei confronti dell’ignoto, rabbia: lontani dall’immediatezza propria della quotidianità, sono questi i davinciani “moti dell’animo” che ogni individuo, in quest’ultimo mese, sta provando. Nella società del “tutto e subito” siamo chiamati a distinguere, come ha esplicato il filosofo Umberto Galimberti nelle fasi preliminari dell’epidemia virale, tra la paura, scaturente dall’istinto di sopravvivenza, e l’angoscia, veicolata attraverso l’opinione di “tuttologi”, presunti possessori di una piena consapevolezza del problema.

“I soggetti protagonisti di questa situazione”, continua Galimberti, “sono essenzialmente tre: la popolazione, la politica, la sanità, portatori, paradossalmente, di istanze differenti tra loro. Bisogna, dunque, trovare una mediazione, in quanto, per mutuare una concezione aristotelica, i comportamenti umani non sono prevedibili alla stregua di teoremi matematici, non hanno una premessa e delle conseguenze”.

Andrebbe esercitata, allora, la phrònesis, virtù propria dell’eroe greco Ulisse, erroneamente tradotta con “astuzia”. Si tratta, infatti, per lo più di buon senso, inteso come la capacità di muoversi con equilibrio ed equità attraverso situazioni pericolose.

Sicché la filosofia, così come la nottola di Minerva hegeliana, giunge sul “far del tramonto”, nel momento in cui la società ha compiuto il suo processo di trasformazione, ponendone in evidenza le ambiguità e formulando qualche nuovo interrogativo (perché, si sa, la Filosofia si pone domande, non dà risposte).

Il Progresso è solo un’ideologia o il frutto della smania riformista propria dell’Illuminismo francese? La Tecnica è onnipotente, può prevenire, curare, salvare? La condizione di pòlemos dell’uomo nei confronti della Natura è parte integrante della dialettica vitale?

Una pandemia delle dimensioni di quella attuale sembra cancellare le barriere temporali, facendo sentire l’umanità impotente così come era in passato. Ancora attuale sembra la penna del Manzoni, che, descrivendo con dovizia di particolari la peste di Milano, traduceva in parole lo stesso senso di smarrimento che accomuna l’umanità del ‘600 a quella odierna.

Sembra, tuttavia, che oggi non si sia sviluppata un’analoga capacità di comprendere che anche   l’industrializzazione, seppur con diverse modalità, sia portatrice di rischi nuovi e inattesi, respingendo le obiezioni di chi crede che dietro ad ogni evento ci sia una motivazione, un complotto, una verità nascosta. Come direbbe Kant: “simili farneticazioni si combattono coi purganti”.

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