Il 21 settembre 2020, non ancora autunno, l’azzurro intenso del cielo leccese d’un tratto si squarciò. E non per un effetto meteorologico imprevisto. Nel centralissimo quartiere Ferrovia, in via Montello, una giovane coppia di fidanzati, Daniele De Santis ed Eleonora Manta, erano stati brutalmente accoltellati da Antonio De Marco, originario di Casarano, che li conosceva bene.
La notizia dell’efferato gesto, alimentò subito nella collettività rabbia e indignazione e, conosciute le ragioni dell’insano accanimento da parte del giovane esecutore, provocò un profondo sbigottimento.
Incalzati dal compito di fornire notizie sempre più aggiornate sull’evento e sul suo autore, per sottolineare la celerità e la veemenza dell’assassinio, i giornali locali riportarono che l’insano gesto fu eseguito nel volgere di appena dieci minuti. Secondo le intenzioni dell’esecutore che le svelò durante gli interrogatori, invece, esso sarebbe dovuto durare un’ora e mezzo per assecondare un proprio piano “diabolico” i cui passaggi non è qui il caso di ricordare.
Ci troviamo dinanzi all’arcaico volvere, volgere, rintracciabile in Lucrezio, Virgilio, Petrarca, Ariosto, Marino, Leopardi, Montale e via elencando che usano il verbo quando parlano di passione, di amore sballottato come il vento. È stato scritto da Gardini che è verbo da registro sublime, verbo da epica;
che in Lucrezio volvo designa di norma un movimento circolare o rotatorio e questa idea si mantiene pure in Virgilio; che nell’Eneide sembra però conferire al verbo anche un senso meno specifico: quello di moto precipitoso, inarrestabile, fatale. Inoltre che nel suddetto poema volvo viene a significare “spingere”, “sospingere”, “travolgere”, “abbattere” o “trascinare”. […] L’effetto del travolgere provoca morti; che Virgilio ha saputo fare di volvo un verbo ricco di pathos: il verbo della morte violenta, del destino tragico.
Da volvere provengono i verbi involvere, sconvolgere, travolgere e i sostantivi rivolta e rivoltella che, certo, non contengono significati rassicuranti, ma incutono sentimenti sinistri se non proprio tragico-delittuosi.
Nel caso dell’omicida leccese, si sa che non ha scelto la rivoltella perché avrebbe azzerato (o ridotto sensibilmente) il tempo della sofferenza delle vittime designate oltre che quello del proprio godimento a vederle soffrire per appagare la sua sete di vendetta, ma un coltello da caccia perché rispondeva meglio al suo piano di crudele spietata efferatezza. È il preliminare che “accompagna” il rituale delle povere donne vittime di femminicidio nei confronti delle quali già l’idea di cancellarle come esseri viventi travolge ogni sano e rispettoso pensiero, e trascina la mente umana “del regista” nel vortice della follia.
Ecco dove può condurre una piccolissima espressione giornalistica, apparentemente banale e molto comune nel lessico quotidiano, ritenuta (apparentemente) semplice e inoffensiva.