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domenica, Settembre 8, 2024

Le autonomie regionali: il vaso mezzo pieno o mezzo vuoto?

Da Leggere

di Giuseppe DE LORENZIS

L’acceso dibattito sulle autonomie delle Regioni non è una novità: se si approfondisse il tema ci si  accorgerebbe che la questione, seppur con le variegate sfumature dovute ai contesti storici diversi, esiste già  da più di un secolo e mezzo. 

Le prime dispute sulle autonomie regionali risalgono agli albori dell’Unità d’Italia: appena fatta l’Italia, se da  un lato Massimo D’Azeglio auspicava che dovevano essere fatti anche gli Italiani, dall’altro il Governo Cavour sin dal 1860-61 si faceva portavoce di un disegno, ideato dai ministri dell’Interno Farini e Minghetti, con lo  scopo di conciliare la varietà regolamentare, esistente in diverse parti d’Italia, all’unità legislativa della  Nazione.  

Il progetto prevedeva la formazione di consorzi interprovinciali chiamati REGIONI, rette da un Governatore  dipendente dal Governo e da una Commissione eletta dai Consigli Provinciali, con poteri deliberativi in  materia di istruzione superiore, caccia e pesca, bonifiche fondiarie, opere pubbliche. 

La proposta, pur particolarmente blanda e cauta, non ebbe il favor della Commissione della Camera che si  oppose fermamente, ma il dibattito continuò ancora per circa sessant’anni, contrapponendo i difensori  dell’autonomia a coloro che invece la osteggiavano. 

I primi sostenevano l’idea di garantire la libertà locale, in origine per evitare la “piemontesizzazione dell’Italia”,  poi per contrastare l’invadenza dello Stato-persona, ma di fondo per adeguare le strutture amministrative alle  diversificate condizioni del Paese (del Sud in particolare), rendendo così più efficiente il funzionamento  dell’apparato statale e gli amministrati più vicini all’azione amministrativa. Si affermava financo che ciò  avrebbe comportato la riduzione della spesa pubblica e degli squilibri derivanti dalla diversa ricchezza e dal  diverso sviluppo esistente tra le varie zone dell’Italia.  

D’altro canto, i contrari vedevano grossi pericoli per l’appena conquistata unità, nel contempo si temeva che  l’istituzione di un ente sovraordinato agli apparati amministrativi locali già esistenti, quali le Province e i  Comuni, potesse, al contrario portare a una centralizzazione a scapito degli enti sottordinati, o ancora a un  aumento della spesa pubblica per la necessità di dover sopportare i costi della moltiplicazione degli enti. Gli  antiregionalisti dell’epoca adducevano anch’essi la presenza di rilevanti squilibri regionali, particolarmente  sentiti dagli studiosi e dai politici meridionalisti che propugnavano, più che la concessione di nuove  autonomie, l’intervento diretto dello Stato-persona sul modello della Legge del 1885 per la città di Napoli.  

Senonché, prima di vedere introdurre nell’ordinamento italiano il termine “Regione” nell’accezione  attualmente intesa, bisogna attendere il 1921, allorquando si disciplinò il riassetto amministrativo dei territori  del Trentino-Alto Adige e della Venezia Giulia, annessi al Regno d’Italia dopo la I guerra mondiale, con  provvedimenti che concessero apposite “autonomie regionali” oltre che provinciali e regionali, destinate ad  essere attuate non solo sul piano dell’amministrazione, ma anche attraverso l’esercizio di poteri legislativi  spettanti alle diete provinciali sopravvissute alla dissoluzione dell’Impero austro-ungarico. 

La discussione sulle autonomie regionali continuò negli anni successivi e, eccettuato il periodo del ventennio  fascista durante il quale esse non potevano trovare adeguata collocazione anche per ovvie ragioni politiche,  già sotto il primo governo Badoglio si tornò ad affrontare nuovamente il tema. 

Esso venne sollecitato anche dalla necessità di affrontare il problema delle istanze separatistiche che  giungevano a gran voce dalla periferia dello Stato Italiano. Così si dispose già nel 1944 una “Consulta  Regionale” per la Sardegna e successivamente l’approvazione dello Statuto Regionale Sardo con legge  costituzionale nel 1948. Più rapida l’approvazione dello Statuto Speciale per la Regione Siciliana, dalla quale  si sollevavano fermenti autonomistici e separatistici: lo statuto venne approvato nel 1946. 

Lo stesso timore del separatismo portò alla speciale concessione di autonomia nella Valle d’Aosta nel 1945.  La tutela della minoranza linguistica tedesca condusse nello stesso periodo all’accordo italo-austriaco De  Gasperi-Gruber, concluso a Parigi il 5 settembre 1946, con il quale agli altoatesini venne riconosciuto il diritto  di usare la lingua materna nelle scuole e negli uffici, oltre a un’autonomia legislativa e amministrativa  coincidente con l’area abitata dalla minoranza stessa.  

Quindi, dopo il secondo conflitto mondiale, i nostri Padri Costituenti dovettero affrontare le autonomie delle  Regioni, fatto ormai compiuto per quelle a Statuto Speciale, mentre rimaneva tabula rasa l’elaborazione di  un progetto regionale riguardante il rimanente territorio italiano.  

Durante i lavori dell’Assemblea Costituente nell’immediato dopoguerra, diverse furono le tesi che  appassionarono gli studiosi: dalla proposta federalistica dei repubblicani di un’Italia suddivisa in 5 o 6 cantoni,  a quella dei liberali e degli azionisti di riconoscere autonomie regionali conciliabili con l’unità dello Stato, fino  a quella assolutamente contraria alle autonomie sia perché costituenti un rischio per lo Stato unitario, sia  perché in grado di compromettere lo sviluppo di una pianificazione economica a livello nazionale, cara ai  comunisti dell’epoca. Nessuna posizione, comunque, particolarmente incisiva. 

Gli atti dell’Assemblea ci restituiscono un’incertezza negli orientamenti dei costituenti in tema di autonomie  e ciò fino all’estate del 1947, allorquando il titolo V del progetto di Costituzione, redatto da un ristretto  Comitato speciale per le autonomie locali, venne esaminato. 

Iniziò un fervente dibattito in cui cominciarono a vedersi repentini cambiamenti di fronte: dai liberali che si  spostarono verso una posizione antiregionalistica, all’estrema sinistra che, estromessa dalla coalizione di  governo, si convertì improvvisamente alla difesa dell’autonomie regionali, considerate un ostacolo allo  strapotere del governo dal quale era stata esclusa. Nel mezzo i democristiani che assunsero posizioni  garantistiche della libertà locale.  

In realtà, l’approvazione del titolo V della Costituzione, relativo alle Regioni, fu il frutto di compromessi e fu  estremamente ambiguo e lacunoso tanto che Salvemini concluse che si trattava di un “vaso vuoto con sopra  la targhetta Regione”. 

Tant’è che le Regioni sono rimaste pressoché sulla Carta (Costituzionale) per quasi trent’anni prima di trovare attuazione, a partire dalla metà degli anni ’70, mediante l’approvazione delle leggi che ne disciplinassero il  funzionamento e l’elezione dei Consigli, nonché il trasferimento delle funzioni amministrative. 

Sotto una continua spinta autonomistica, si giunse nel 2001 alla riforma degli artt. 116 e 117 della  Costituzione. La modifica di tali articoli, frutto di un procedimento complesso, garantito e rinforzato da un  quorum maggiore rispetto al normale richiesto per l’approvazione delle leggi ordinarie, venne confermata da  un referendum. Fu un primo nuovo passo verso un’autonomia regionale più incisiva rispetto al sistema  previgente. 

La riforma degli artt. 116 e 117 della Costituzione rappresenta l’incipit, l’ambito di movimento e il perimetro  dell’agire, presupposto imprescindibile e necessario senza il quale oggi non avremmo visto sorgere l’attuale  legge sull’autonomia differenziata delle Regioni, che ne costituisce l’attuazione.  

Alla luce delle critiche e polemiche oggi agitate dagli schieramenti di opposizione, contrari all’autonomia  differenziata, desta stupore constatare che la revisione del Titolo V della Costituzione, con la modifica degli  artt. 116 e 117 in evidente chiave autonomistica, fu approvata dal Parlamento tra il 28 febbraio e l’8 marzo  del 2001 con i soli voti del centrosinistra, mentre il centrodestra non partecipò per protesta, ritenendo che  una riforma di simile portata non potesse concepirsi negli ultimi mesi di una legislatura ormai prossima al  termine, con le imminenti elezioni politiche fissate al 13 maggio 2001. 

L’attuale dibattito sembra quasi un rinnovarsi, per corsi e ricorsi storici, degli scontri che avevano animato,  sebbene sotto differenti contenuti normativi, le contrapposizioni politiche postunitarie e postbelliche in  ordine alle autonomie regionali, con alternanza di vedute apparentemente contraddittorie da parte dello  stesso schieramento politico, oggi come allora, prima per sostenere, poi per contrastare: nihil sub sole  novum

Ma non era forse ragionevole attendersi che quel vaso vuoto dei Padri Costituenti sarebbe stato man mano  colmato? Se mezzo vaso era stato riempito dopo circa trent’anni dalla Costituzione, non era logico aspettarsi  che la rimanente parte del vaso (mezzo vuoto) potesse essere colmata prima o poi con l’attuazione degli  articoli 116 e 117 della Costituzione? 

Si trattava, in buona sostanza, di dare contenuti alla riforma che altrimenti sarebbe rimasta una vacua chimera  sulla Carta (Costituzionale) anche qui, ora come allora. 

Le posizioni favorevoli e contrarie, come da tradizione storica, oggi si contrappongono ancora una volta per  rappresentare gli annosi problemi: da un lato maggiore efficienza, miglioramento dei servizi e vicinanza delle  istituzioni al territorio e ai cittadini, dall’altro i rischi di disgregazione della coesione nazionale e di crescita del  divario tra il Nord e il Sud. 

A ben vedere, il divario tra il nord e il sud del Paese esiste da sempre e, finora, non si è mai fatto nulla per  ridurlo: per curarsi al meglio i meridionali scelgono quasi sempre di spostarsi fuori Regione, al Nord; le migliori  risorse del Meridione emigrano per le difficoltà e le scarse opportunità nel proprio territorio. Si calcola che  nel 2080 (rapporto Svimez) la popolazione al Sud diminuirà di circa 8 milioni di abitanti, ovvero sarà  esattamente la metà di quella di oggi.  

Claudio Velardi in un suo recente articolo ha scritto: “Posare gli occhi per terra significa partire dal Sud per  quello che è. Io nel Sud ci vivo, il Sud lo conosco, me lo porto addosso come una seconda pelle. Nel Sud la vita  è più faticosa e scomoda che al Nord: i servizi essenziali (sanità, trasporti, infrastrutture, macchine  burocratiche) non funzionano, la formazione è scadente, i livelli di reddito sono più bassi. Dal Sud quelli bravi  vanno via. Ora. Senza l’autonomia differenziata. Guardare la luna significa gettare le basi per una rivoluzione  del Sud, fondata sulla responsabilità dei cittadini e dei governanti, sull’autogoverno delle sue comunità, sulla  valorizzazione delle sue risorse. Senza andare con il cappello in mano ad elemosinare a Roma. I politici, gli  intellettuali e gli opinionisti che guardano il dito organizzino pure vibranti proteste e referendum, i meridionali  che guardano la luna si battano per cambiare il corso delle cose, con orgoglio e dignità.”. 

La legge sulle autonomie differenziate delle Regioni appena approvata si inscrive in un quadro generale in cui,  in ogni caso, appare salvaguardato il rispetto dei princìpi di unità giuridica ed economica, nonché di coesione  economica e fermo restando che l’autonomia e le attribuzioni richieste dalle Regioni sono subordinate  all’approvazione della disciplina relativa ai livelli essenziali delle prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e  sociali che devono essere garantiti equamente su tutto il territorio nazionale. I LEP costituiscono una soglia  minima per rendere effettivi tali diritti su tutto il territorio nazionale e per erogare le prestazioni sociali di  natura fondamentale. 

L’iniziativa per ottenere l’autonomia differenziata (su 23 materie ben specificate) deve partire dalla Regione  interessata che deve concordare un’intesa con lo Stato. Il Presidente del Consiglio dei ministri al fine di  tutelare l’unità giuridica o economica, nonché di indirizzo rispetto a politiche pubbliche prioritarie, può  limitare l’oggetto del negoziato ad alcune materie o ambiti di materie individuati dalla Regione nell’atto di  iniziativa. 

Se questi sono i principi e se si colgono gli aspetti di garanzia di unità e coesione, nonché di rispetto dell’equità  dei diritti civili e sociali, probabilmente sarà un’importante opportunità affinché ogni Regione, specie al Sud,  lungi dall’essere abbandonata a sé stessa, permanendo pur sempre il principio solidaristico, possa trovare 

uno slancio per creare le condizioni ottimali per lo sviluppo e la crescita del proprio territorio in piena  autonomia.  

Vedremo cosa ci riserverà il futuro. 

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