Nell’odierno dibattito sull’identità europea, torna ciclicamente, e puntualmente evocato, il Manifesto di Ventotene, come fosse una sacra reliquia da rispolverare nei momenti di crisi. Eppure, a dispetto della retorica istituzionale, il sogno federalista di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi non fu mai realmente adottato dai partiti fondatori dell’Unione. Né dai popolari, né dai socialdemocratici. Né all’inizio, né oggi.
Lo stesso Sandro Pertini, futuro Presidente della Repubblica, spiegò a Spinelli perché il Partito Socialista non appoggiò quel progetto: all’indomani della caduta del fascismo, l’obiettivo era governare l’Italia, non federarsi con ex nemici come tedeschi e francesi. Lo stesso atteggiamento tennero, comunisti e democristiani. Solo dopo, a guerra finita, figure come Alcide De Gasperi e perfino Winston Churchill (a guerra vinta e potere perso) si convertirono all’idea di una cooperazione europea. Ma mai in senso pienamente federalista.
Il Manifesto di Ventotene resta un’opera ispiratrice, mai stata vincolante. Infatti, non fu mai convertito in un trattato europeo poiché la scelta, fin dai tempi del Trattato di Roma del 1957, fu quella di federare i mercati, non gli Stati. Non le coscienze, ma le economie. L’Europa che nacque fu, e resta, un’istituzione economica di costruzione mercatista. Anche successivamente, da Maastricht in poi, il baricentro è rimasto quello dei conti pubblici, delle regole economiche dei vincoli di bilancio. La libertà dei cittadini, l’integrazione delle istituzioni, la costruzione di una sovranità politica condivisa sono idee rimaste sullo sfondo.
L’euro è forse il solo elemento che oggi si possa definire federale. Ma è una moneta senza un tesoro comune, senza un’unica politica fiscale, senza una vera unione dei capitali. La BCE non basta a fare un’Europa unita. Euronext, il sistema borsistico europeo, altro non è che un mosaico di listini. I capitali restano dispersi, così come i centri di potere.
La presa di coscienza sulla fragilità strutturale dell’Unione Europea la si deve a Ursula von der Leyen e al suo piano ReArm Europe da 850 miliardi, in risposta alle aggressioni russe e alle incertezze americane. Manca un esercito comune, una difesa condivisa e, soprattutto, manca un debito federale come quello americano. Il paragone con gli USA è impietoso: lì dal 1793 c’è una sorta di “trinità costituzionale”, moneta, esercito, debito comune, che in Europa non c’è. E la politica europea, invece di affrontare il fallimento del modello attuale, si rifugia in rituali retorici, scomodando finanche Roberto Benigni per commentare la grandezza dell’Europa, ch’egli ha definito come “la più grande costruzione politica degli ultimi 5000 anni”, confondendo la civiltà millenaria europea con la tecno-burocrazia di Bruxelles e Strasburgo. Qui non si gioca solo una battaglia tra nazionalisti ed europeisti. Si confrontano due visioni inconciliabili d’Europa:
- quella delle patrie, di matrice Gaullista, con la sua idea di cooperazione tra sovranità nazionali e
- quella delle élite, di matrice cosmopolita, che intende superare il concetto di nazione per costruire un’Unione post-identitaria e tecnocratica.
La prima, nella quale potrei anche ritrovarmi, rispetta la storia e le tradizioni, la seconda, dalla quale rifuggo, oggi dominante, le vuole superare. È l’Europa senza anima, senza popoli e senza consenso.