La Pasqua è una festa di origine ebraica e ricorda la fuga dall’Egitto del medesimo popolo. Il nome originario deriva da pessah, che significa letteralmente “saltare oltre”, in ricordo della notte quando il Signore oltrepassò le case degli Ebrei, contrassegnate dal sangue dell’agnello sacrificato, risparmiandone i figli maschi. Oggi questa festa ebraica non coincide con quella cristiana perché i due rispettivi calendari sono diversi.
In ricordo del sacrificio dell’agnello, cui Cristo è assimilato come vittima, nel pranzo pasquale di moltissime regioni, un posto di riguardo è tuttora occupato dall’agnello – cotto al forno o arrostito sulla brace -, e da involtini realizzati con le sue interiora, che nel Salento prendono il nome di turcinieddhri, mboti, cazzimarri.
Per questa insostituibile presenza nel ricettario pasquale salentino, in passato non era difficile sentire la voce di macellai ambulanti che, a cominciare dal pomeriggio del Giovedì santo, si diffondeva per le vie dei paesi e dei centri urbani, al grido: A ci scurciamu l’agnellu! Ci tene cueri t’àuni! A chi scuoiamo l’agnello! Chi ha cuoi di agnelli!, offrendo le loro prestazioni per ammazzare e scuoiare al momento gli agnelli (per fare più che altro incetta dei velli) a coloro che, per atavica abitudine, li compravano vivi.
La pietanza del pranzo di Pasqua era costituita dai triddhri o millaffanti, mille fanti (o: malfatti?), ottenuti da un impasto di semola, uova, formaggio e prezzemolo tritato, sbriciolato con le mani; le palline informi e diseguali si lasciavano asciugare almeno per ventiquattr’ore, prima di essere cucinate direttamente nel brodo di gallina o di cappone. Per prepararli si utilizzavano le uova conservate durante il periodo quaresimale, uova che si adoperavano anche per confezionare la cuddhrura o puddhrica, una sorta di pane pasquale (di pasta dolce o salata): se si dava la forma di pupattola era regalato alle bambine, se di galletto o di panierino era regalato ai maschietti, se di tarallo agli adulti; contenevano uova in numero dispari, fermate con strisce di pasta. Le cuddhure erano cotte al forno. Si mangiavano soltanto dopo lo scioglimento delle campane pasquali (che un tempo avveniva il Sabato santo). Terminata la funzione religiosa, le fidanzate inviavano in dono alla futura suocera una cuddhrura con un uovo soltanto; un’altra con 21 uova al fidanzato ed altre, di diversa misura, erano destinate ai parenti del fidanzato; questi abitualmente ricambiava con un agnellino di pasta di mandorla che teneva appeso al collo un oggettino di oro.
La tradizione di consumare la cuddhrura è contenuta nella seguente filastrocca:
Sabatu santu ieni currendu Sabato santo vieni correndo
tutte le fimmene anu chiangendu tutte le femmine vanno piangendo
anu chiangendu cu tuttu lu core vanno piangendo con tutto il cuore
Sabatu santu cuddhrure cu l’oe. Sabato santo ciambelle con le uova.
Il dolce tradizionale pasquale è l’agnello di pasta di mandorla. Perché porti fortuna si deve rispettare una consuetudine superstiziosa: la prima fetta non si deve tagliare dalla testa, ma al centro della pancia dove si nasconde il prelibato tesoro, ossia la deliziosa faldacchiera, un delicatissimo zabaione cotto a bagnomaria e spruzzato di liquore Strega che serve per aromatizzarlo e renderlo gradevolmente alcolico.
Il taglio sulla pancia pare che abbia un valore propiziatorio sui commensali e, naturalmente, su chi lo taglia. È categoricamente proibito tagliare l’agnello prima di Pasqua; altrimenti, gli impazienti ghiottoni non vedranno i benefici della fortuna. Così la tradizione. Che si tratti piuttosto di un espediente per consentire a pesci e agnellini di arrivare integri sulla tavola per le festività? Si può essere giustamente sospettosi!