Era quasi logico che si sarebbe giunti a questo punto. Il vaso di Pandora è stato scoperchiato solo ora, ma il problema esiste già da tempo anche se, con grande maestria, i protagonisti hanno saputo renderlo invisibile.
Nel periodo di vigenza della Costituzione, l’assetto istituzionale della magistratura italiana è stato trasformato, apparentemente, con l’obiettivo di salvaguardarne l’indipendenza dagli altri poteri, in realtà per i motivi opposti.
Fermo restando che la tensione fra l’indipendenza del giudice e la sua responsabilità nei confronti della comunità è connaturata ai regimi liberal-democratici, in quanto basati sul principio della sovranità popolare che ogni organo politico vuole espressione, diretta o indiretta, della comunità, essa tende tanto più ad accentuarsi quanto più il ruolo del giudice si distacca da quello di mero esecutore del comando legislativo per assumere i caratteri di un intervento autonomo e, per ciò stesso, politicamente caratterizzato.
Non sono un costituzionalista, ma mi sembra piuttosto chiaro che in un Paese dove il Ministero della Giustizia sovrintende al personale e all’organizzazione degli Uffici giudiziari ordinari, fermo restando le funzioni sui magistrati del Csm, presieduto dal Presidente della Repubblica, a sua volta espressione del voto parlamentare, quindi politico, non si può pensare che la Magistratura sia un potere autonomo, indipendente, quindi, non politicizzato. Per non parlare dei processi di reclutamento dei giudici, anch’essi, in Italia, dipendenti completamente dal Ministero della Giustizia, a differenza di alcuni Paesi di common law, come gli Stati Uniti d’America, dove i giudici vengono eletti direttamente dal popolo, al pari dei membri del parlamento. E ancora. Altrove, le carriere di giudici e pubblici ministeri sono separate, in Italia no.
Le differenze risultano chiare: nei Paesi di common law, tali caratteri della struttura istituzionale agiscono da contrappeso all’indipendenza della magistratura, ne costituiscono un rafforzamento e, al tempo stesso, un limite nei confronti del potere politico.
L’influenza sui processi di reclutamento, infatti, ipoteca i valori dei giudici fino a renderli “poco distanti” da quelli prevalenti nel sistema politico, creando, in aggiunta, anche il problema dell’indipendenza interna, cioè del singolo giudice nei confronti degli altri giudici, in virtù del fatto che i membri del corpo giudiziario sono fra loro ordinati gerarchicamente in una carriera che prevede meccanismi di progressione basati sull’anzianità di servizio e su valutazioni del merito operate con larghi margini di discrezionalità dai superiori gerarchici.
Questo è accaduto in quanto, ogni qualvolta vi sia stato un tentativo di riforma della magistratura, esso è stato sostenuto, in sede politica e parlamentare, dai partiti di sinistra, così consentendo a quest’ultima di vedersi ricambiare “la cortesia” al momento opportuno, e facendo molta attenzione, quando se ne verificò la possibilità, di modificare la legge che eleggeva il Csm in senso proporzionale in modo da garantire una rappresentanza a tutte le correnti e passando da una fase di diffidenza nei confronti della Magistratura ad una di controllo attraverso di esse.
Il risultato è che i magistrati, dopo le riforme degli anni ‘60 e ‘70, godono, in linea di principio, di notevoli garanzie di indipendenza interna perché amministrati da un organo, il Csm, i cui processi decisionali risultano sovente influenzati, più che dal merito dei problemi, dagli schieramenti interni, espressione delle forze politiche di turno.
Le correnti sono nate dal conflitto sviluppatosi all’interno della magistratura sul tema specifico delle carriere e sono diventate, progressivamente, uno strumento con cui, in misura sempre più efficace, sono state articolate le domande dei magistrati nei confronti di parlamento e governo e consolidatesi soprattutto grazie all’influenza che esercitano sul Csm. Ma la loro importanza non può essere compresa senza tener conto che lo smantellamento della tradizionale struttura gerarchica ha privato lo stesso Csm, di criteri per valutare i magistrati, per esempio, ai fini dell’affidamento degli uffici direttivi ovvero per decidere in generale sui trasferimenti quando per lo stesso posto concorrano più aspiranti.
In questo panorama emerge la figura di Palamara, punta di un iceberg che non si scioglierà mai a meno che egli, anziché infilarsi la veste del capro espiatorio, non faccia, con un vero atto di coraggio, i nomi di tutti coloro che sono coinvolti in questa, non tanto, nuova commedia all’italiana.